
L’esclusione del Team Qhubeka non è la fine del ciclismo in Africa
09/12/2021L’Uci ha annunciato che il team sudafricano non avrà una licenza WorldTour per il 2022. Ma quello africano è un movimento in continua crescita
Ora che il tempo è finito davvero, che il colpo di (milioni e) fortuna non è arrivato, che le speranze di un salvataggio all’ultimo minuto si sono seccate, a prevalere è una sensazione di malinconica amarezza. Accade sempre così quando un bel film si chiude con un finale mediocre.
L’Uci ha annunciato quello che si era intuito già da mesi: il Team Qhubeka non avrà una licenza WorldTour per il 2022.
Tutto finito dunque. Non c’erano le condizioni per continuare. Senza uno sponsor principale capace di mettere i soldi per coprire le spese di una stagione non si può andare avanti.
Era una bella storia quella del Team Qhubeka (l’ultima squadra di Fabio Aru, quella che doveva essere e non sarà più di Domenico Pozzovivo), una di quelle nate con grandi propositi, ambiziosi e positivi: cambiare l’Africa attraverso le biciclette. Era questa la missione originaria di Douglas Ryder quando nel 2007 fondò il team in Sud Africa sotto l’effige della MTN-Microsoft. Era da dieci anni che si impegnava a dare (e darsi) un’occasione ai corridori sudafricani, quell’anno decise di allargare al continente la sua missione.
Uno sforzo che dal 2011 si unì a quello della Qhubeka, l’ente no profit che dal 2005 raccoglie fondi per distribuire bicicletta in Africa. È una bella parola Qhubeka: viene dalla lingua Nguni, vuol dire “progredire, andare avanti”, sottintende però una dimensione positiva e ottimistica. Si adatta bene alla bicicletta, soprattutto in Africa. “Perché in certe zone dell’Africa la bicicletta è ancora un mezzo di salvezza, un modo per accorciare le distanze, per allargare le conoscenze. È ciò che a molti dà la possibilità di sognare un futuro migliore”, dice a Girodiruota Jimi Chembe-Loku.
Anni fa, grazie a una delle 30.000 biciclette distribuite dalla Qhubeka in Africa Jimi ha potuto coprire la quarantina di chilometri che separavano il suo villaggio dalla capitale del Congo, Brazzaville, e frequentare le scuole, poi l’università e ottenere una borsa di studio per finire gli studi in Francia e diventare neurochirurgo.
“In questi anni l’esistenza del Team Qhubeka è stato una spinta a inseguire il sogno. È vero che i corridori africani in gruppo non erano tantissimi, ma questa squadra rappresentava più di un’occasione. Incarnava la speranza di potercela fare, era l’evidenza che anche l’Africa poteva avere un posto nel mondo sportivo”, sottolinea il dottor Chembe-Loku.
La strada che un ciclista africano deve affrontare per arrivare nel grande ciclismo è lunga e ben più tortuosa di quella che deve affrontare un europeo. Ed è problematica già dall’inizio, dall’acquisto della bicicletta in poi. E una volta acquistata i problemi non diminuiscono: dove correre? e come? e per chi?
Il fallimento del Team Qhubeka però non rappresenta la fine del ciclismo africano e nemmeno la smaterializzazione di un sogno. Perché se è vero che nel World Tour del 2022 non ci saranno squadre africane, esiste una galassia di piccole realtà che continuano ad alimentare le speranze ciclistiche dell’Africa.
A partire dal Team Qhubeka continental. Quella che era il vivaio della prima squadra continuerà a pedalare come ha sempre fatto dal 2016: base in Italia, scouting in Africa.
Il dato più interessante però è il continuo aumento del numero di squadre nel continente africano. Nel 2000 erano un centinaio, nel 2021 sfiorano il migliaio.
Etiopia e Rwanda sono i capifila di un movimento in continua crescita e che prova piano piano a scalare il ciclismo mondiale.
In Etiopia le gare sono aumentate del 350 per cento negli ultimi sei anni, il numero di ciclisti e quintuplicato e quello degli appassionati aumentato di quindici volte. Il ciclismo è diventato lo sport nazionale tanto che “non passa fine settimana passa senza che le strade siano bloccate per un evento ciclistico. Anzi la gente si stupisce se le strade ciò non avviene. La bicicletta è diventata un appuntamento culturale: è entrato a far parte della vita cittadina”, ha detto al The Globe and Mail Damr Gebretinsae, un funzionario della federazione ciclistica nazionale dell’Eritrea.
È il Rwanda però a oggi il paese che sta intercettando nel migliore dei modi la voglia di bicicletta in Africa. E non solo perché ospiterà i Mondiali di ciclismo del 2025.
Nel paese si è innescato un interessante circolo virtuoso tra sport, cultura ed economia che è riuscito a influenzare la politica. Dal 2010 in poi la bicicletta ha iniziato a diventare uno dei principali protagonisti della crescita economica e culturale del paese. Il cicloturismo era cresciuto a tal punto da diventare centrale nella vita di molte regioni del paese e per salvaguardare questa fonte di ricchezza per la popolazione il governo decise di intervenire. Venne riformato il codice della strada e di disincentivare l’utilizzo delle auto in città.
Nel 2016 erano 374 milioni di dollari generati dal cicloturismo. Stime recenti prevedono che il settore dovrebbe superare i 900 milioni di dollari entro il 2024. E questo dato non tiene conto dei circa 400 milioni di dollari di investimenti per la realizzazione di un comparto produttivo di ebike, il primo nel paese, il terzo nel continente africano. Non poco per un paese che ha un pil di 10,33 miliardi di dollari. Nella capitale Kigali è già attivo inoltre un servizio di ebike sharing. E potrebbe non essere il solo. Una start up rwandese potrebbe iniziare il servizio già entro la metà del 2022.
In questi anni inoltre il Tour du Rwanda è cresciuto per importanza e presenza mediatica, tanto da diventare una (se non la) corsa di riferimento del circuito africano e ha iniziato ad attrarre sponsor internazionali, oltre a diverse squadre europee.
Il Rwanda aspetta il suo campione per incrementare ulteriormente la passione popolare. Diverse squadre professional (la serie B del ciclismo mondiale) si stanno informando sul conto di Etienne Tuyizere, il campione africano tra gli junior.