
Tokyo 2020. Guida letteraria al ciclismo su pista
03/08/2021C’era un tempo nel quale i velodromi erano luoghi ambiti, ricercati, capaci di attirare migliaia di persone per il solo motivo che lì c’erano delle biciclette e che quelle biciclette erano uno tra i migliori spettacoli che si potessero vedere. Era un tempo che si è dilatato tra gli anni Novanta dell’Ottocento e gli anni Sessanta del Novecento. Allora tutte le grandi città di Europa e America avevano il loro grande evento a pedali. Oltre a centinaia di altre gare minori capaci comunque di esaltare un popolo che impazziva per le ruote che giravano negli ovali.
I corridori erano nomi letti sui giornali, le tribune li trasformavano in volti. Il resto era velocità, spettacolo, piccole dosi di grande ciclismo.
Il 15 settembre del 1914 al velodromo Sempione, per una riunione su pista alla quale parteciparono, tra gli altri, il Diavolo Rosso Giovanni Gerbi, il futuro Campionissimo Costante Girardengo, il francese Jean Alavoine, l’Avucatt Eberardo Pavesi, il vincitore del Giro del 1913 Carlo Oriani e quello di quell’anno Alfonso Calzolari, furono venduti diciassettemila biglietti e centosessantadue ettolitri di vino. Quasi un litro a persona, una festa popolare.
Il velodromo era un’attrazione alla quale era difficile rinunciare. E questo ancor prima dei velodromi. “Tante, belle e veloci sono le biciclette allo Zappoli che verrebbe voglia di vederle tutti i giorni, di far costruire un luogo solo per loro, per gustarne ognidì la beltà”, scrisse il poeta Olindo Guerrini nel 1907. Lo Zappoli era l’ippodromo di Bologna che il sabato mattina veniva prestato ai velocipedi. Inseguimento, gara a eliminazione e tandem, il meglio che si poteva vedere. Amilcare Pasuanelli un campione: “L’Amilcare è un drago di furbizia. Se esiste un modo per fregare l’avversario lui lo trova”, scrisse all’amico Corrado Ricci. Amilcare Pasuanelli non diventò un professionista, la sua memoria si è persa nella storia.
I velodromi furono amore d’Europa e d’America. Furono i primi luoghi nei quali l’uomo qualunque si innamorò dei campioni del pedale. La pista anticipò il divismo dei ciclisti, elevò a miti i corridori. Prima che sugli ovali si dessero battaglia tutti i più grandi campioni della storia di questo sport, la pista concesse ad alcuni di loro la gloria dell’amore popolare.
Arthur Augustus Zimmerman fu il primo grande campione che unì il mondo del ciclismo. Zimmerman era americano, un pistard eccezionale, capace di eccellere sia nella Velocità che nel mezzofondo. Non esistevano ancora i Mondiali che il suo nome era conosciuto ovunque. Nel 1892 a Londra pur di vederlo in oltre diecimila si recarono alla kermesse di Londra, considerata da molti il primo campionato mondiale della specialità. Nel 1896 Henri de Toulouse-Lautrec si recò al velodromo Buffalo di Parigi richiamato dalle leggende che circolavano su di lui. “La sua grazia nel muovere i pedali è pari a quella della facciata della cattedrale di Chartres”, scrisse al compagno di bevute, il cantautore Aristide Bruant. E“per celebrarne la forza e l’impeto” – raccontò al Figaro lo scrittore Tristan Bernard – decise di dipingere sull’asfalto della strada che portava al velodromo un ritratto stilizzato del velocista americano con accanto due parole: Allez Zimmì. Tutto con la vernice rossa”.

Negli anni Venti i velodromi di Parigi, New York e Londra erano i rifugi mondani di una parte dei rampolli della buona borghesia. Francis Scott Fitzgerald ci portò Zelda e nel vedere Gaetano Belloni e Alfred Goullet sbaragliare tutta la concorrenza scrisse: “Non capisco come possa un italiano grande e grosso (Belloni, nda) dimostrare tanta leggerezza su di una bicicletta”. John Davison Rockefeller Jr. aveva un palchetto al Madison Square Garden fornito di una personale riserva di champagne. Leggenda vuole che in una Sei giorni fosse stato proprio lui a suggerire una nuova gara, il Madison, ossia quella che in Italia chiamiamo Americana. Le date non coincidono però. Uno tra i primi grandi campioni delle Sei Giorni, Joe Fogler, disse al New York Times che fosse stato il pistard Archie McEachern a suggerirlo agli organizzatori per convincerli a farli correre in coppia e non da soli. Cosa che riuscì indipendentemente dalla verità dell’affermazione di Fogler.
Henri Desgrange, il papà del Tour de France, trovò l’Americana una “ignobile idiozia d’Oltreoceano che andrebbe vietata in Europa”. Per lui sarebbe esistita solo la prova sulle 24 ore e la Velocità individuale, ma solo come intermezzo tra una 24 ore e l’altra. Anche se il massimo per lui era il Record dell’Ora. Anche perché se l’era inventato.
Se nel secondo dopoguerra l’America si dimenticò delle biciclette, gli anni Cinquanta furono invece l’epoca d’oro delle riunione su pista. Fu a Zurigo che Friedrich Dürrenmatt, tra un Armagnac e l’altro, rimase sbigottito da Fausto Coppi. Alla radio raccontò di un uomo “che vorticava in un velodromo imponendo una superba e ineccepibile superiorità fisica ed estetica a tutti quanti. Fausto Coppi rappresenta la perfezione meccanica dell’uomo alle prese con il movimento biciclistico”. Quel giorno l’Airone riuscì a prendere Ferdi Kübler in meno di due minuti e mezzo.

Roland Barthes all’Inseguimento preferiva la Velocità individuale, la disciplina che più “si avvicinava all’arte”, perché caratterizzata da forza, velocità ed equilibrismo, “l’unica nella quale serve anche la maestria dell’intuizione”. L’intuizione statica del surplace, quel “blocco entusiasmante del movimento che preannuncia la fluida e vorticosa messa in atto della velocità”. Artista di questo era il pistard Antonio Maspes, capace di cuocere nell’immobilismo gli avversari prima di batterli.

Il 27 luglio del 1968 sotto il sole che cuoceva il velodromo Ganna di Masnago Giovanni Pettenella e Sergio Bianchetto si esibirono in oltre un’ora di surplace, 63 minuti.
Pierre Chany, raggiunto l’indomani dalla notizia, scrisse sull’Equipe: “Ci sono eventi che andrebbero visti, vissuti, adorati. Quei sessantatré minuti di puro immobilismo rappresentano la perfezione e il contrappasso della pista. Esistesse un filmato dovrebbe essere proiettato in ogni cinematografo, in ogni festa popolare. Nulla è più esaltante di ciò che sembra noia”.
Se non avete chiaro di cosa si è parlato sino a qui, ecco un rapido manuale che spiega in breve le varie discipline del ciclismo su pista che ci terranno compagnia sino alla chiusura di Tokyo 2020.
Il ciclismo su pista, istruzioni per l’uso
Americana
Questa disciplina se la sono inventati gli americani, o meglio i newyorkesi al Madison Square Garden. La chiamavano Madison, ora va per la maggiore Americana, ma tant’è. Si corre in coppia. Ciascuna squadra schiera in gara un ciclista che può dare in ogni momento il cambio col compagno lanciandolo all’americana, ossia afferrandolo per una mano per dargli la spinta. Durante la prova si svolgono diverse volate di gruppo, assegnando punteggi ai primi 4 (5-3-2-1 punti). Vince chi totalizza il maggior punteggio complessivo a parità giri.
Inseguimento
Gli atleti devono coprire quattro chilometri per gli uomini, tre per le donne (ossia, dato che la pista del velodromo è lunga 250 metri, 16 e 12 giri). I corridori partono da fermi, uno da un rettifilo, l’altro da quello opposto (nelle qualificazioni sono soli). Vince il ciclista che riesce a raggiungere l’avversario (o in caso non riuscisse, quello che realizza il miglior tempo).
Inseguimento a squadre
Il meccanismo è lo stesso dell’Inseguimento individuale, solo che si corre in quattro per squadra. Il tempo viene preso sulla ruota anteriore del terzo ciclista che supera il traguardo.
Keirin
I corridori partono da fermo e si mettono a ruota di una moto che alza gradualmente la velocità sino a oltre cinquanta all’ora (45 per le donne). A due giri e mezzo dal termine (se la pista è lunga 250 metri come quella in Giappone) si toglie di mezzo e lascia i corridori liberi di fare lo sprint. Vince chi arriva primo.
Velocità individuale
Tre giri di pista, due uomini, vince chi arriva primo al traguardo. Il sorteggio impone a uno dei due di prendere la testa della corsa. E affrontare lo sprint in testa molto spesso significa perdere. Per questo si procede ad andatura ridotta, almeno sino all’ultima o alla penultima curva. Qualcuno rallenta a tal punto da fermarsi e rimane in equilibrio sulla bicicletta, il surplace. Un tempo questo poteva essere infinito (a patto di riuscirci), a sfinimento dell’avversario, ora ne sono consentiti due di al massimo 30 secondi. La bellezza dell’equilibrio ha lasciato spazio alla velocità bruta. Il nome italiano, usato ovunque sino agli anni Ottanta, all’inglese Sprint.
Velocità a squadre
Tre giri di pista (due per le donne), tre corridori per ogni squadra, (due per le donne). Vince chi ci mette meno tempo. I primi due ciclisti tirano ciascuno per un giro prima di spostarsi, e lanciare il terzo nella volata finale.
Omnium
Più che una disciplina è una sommatoria di discipline, in pratica tutte quelle che non hanno più trovato posto alle Olimpiadi ma sono ancora disputate nelle Sei giorni (quelle che sono rimaste, poche). Si corre individualmente e si affrontano quattro prove: lo Scratch (15 km per gli uomini, 10 per le donne; gara in linea nella quale conta l’ordine d’arrivo, ma nella quale si può guadagnare giri andando in fuga, ossia staccando il gruppo per riprenderlo e inserirsi da dietro); corsa a tempo (gara di gruppo di 10 km in cui, dopo i primi cinque giri di “lancio”, a ogni giro si ha uno sprint che assegna un punto al vincitore – anche in questa si può guadagnare giri); corsa a eliminazione (altra prova di gruppo in cui ogni due giri viene eliminato il corridore la cui ruota posteriore passa per ultima il traguardo); corsa a punti (gara su 30 km per gli uomini, 20 per le donne, nella quale vale il risultato delle diverse volate intermedie nelle quali vengono assegnati punti ai primi quattro classificati (5-3-2-1 punti) e 20 a chi guadagna un giro).