Tokyo 2020. Semplicemente Pidcock

Tokyo 2020. Semplicemente Pidcock

26/07/2021 0 Di Giovanni Battistuzzi

La bicicletta è un meccanismo semplice. Due barre di metallo, le pedivelle, sorreggono i pedali, a una è fissata una corona dentata che è unita a un’altra corona dentata attaccata al mozzo della ruota posteriore. Tutto questo è tenuto assieme da una struttura di tubi metallici che prevede un’altra ruota, un manubrio e un sellino che agevola il movimento delle gambe di chi ci sta sopra. Il movimento è un sommarsi di banali addizioni meccaniche e motorie. Tutto il resto è accessorio, non necessario. Se c’è meglio, facilita. Se non c’è amen, fa lo stesso. Anche l’asfalto è qualcosa di secondario. Basta giocare con la pressione e con la larghezza delle gomme e la bici può andare ovunque, pure sull’acqua se ci si aggiunge un galleggiante (per non parlare del ghiaccio).

Pure pedalare è un meccanismo semplice. Si impara facilmente, non ce lo si dimentica, è alla portata di tutti, serve mica andare veloce. Almeno se non si gareggia per qualcosa. Perché se si compete ecco che la velocità assume la sua importanza.

La pista è il posto dove la velocità è regina, la strada quello nel quale la velocità è principessa, la terra e le sue sorelle è il luogo dove la velocità è colorata. Di polvere, di fango, di schizzi. È minerale più che altrove. È la dimensione del pedalare nel quale le vibrazioni si sentono sul manubrio e serve averne di positive per domarle al meglio. La mountain bike è una questione di tranquillità. Veloce, arrembante, ma tranquilla.

Anche Tom Pidcock è un meccanismo semplice. Sale su di una bici e se ne frega delle ruote che monta, degli scenari che attraversa, del terreno sul quale pedala. Muove i pedali e basta e lo fa con una naturalezza che fa apparire semplice qualsiasi cosa. Un Giro d’Italia dilettanti, una Amstel Gold Race, una corsa di ciclocross sembrano nel vederlo la stessa identica cosa, un’estensione del suo dominio di lotta, nel quale però la lotta è qualcosa di naturale. Pure una gara olimpica, di per sé ansiogena e complicata, appare lineare come una scampagnata in famiglia.

Tom Pidcock è riuscito a trasformare la prova di mountain bike a Tokyo 2020 in qualcosa di straordinariamente armonico. La bici sembrava una perfetta estensione del suo corpo. Un meccanismo unico che si muoveva elegantemente seguendo una musica che solo lui sentiva, ma che tutti gli spettatori potevano intuire senza percepire né le note né l’armonia. Il ritmo invece era qualcosa di facilmente intuibile da tutti. Una marcetta in un continuo crescendo, un’impennata musicale che nessun avversario, nemmeno il tenace Mathias Flückiger – primo nella classifica di Coppa del mondo di cross country quest’anno –, è riuscito a seguire. L’inglese ha ballato da solo, in un assolo da étoile. Centro della scena, armonia pura, l’evidenza che il complesso, se in buone mani (o meglio in buone gambe), non è null’altro che qualcosa di apparentemente semplicissimo.

Ha atteso il momento giusto per far diventare la sua pedalata vorticosa, i tre quarti d’ora di gara – quelli che il grande campione della specialità Julien Absalon considerava il crinale tra la speranza di poter vincere e la certezza di non essere all’altezza –, lì ha spazzato dubbi e concorrenza.

Lo ha fatto senza avere il fiato sul collo dell’altro corridore che più gli si avvicina per vedute, uno dei pochi che condivide con lui la consapevolezza della semplicità e dell’infinitezza della bicicletta. Mathieu van der Poel però non c’era. Era finito a terra chilometri e chilometri prima.

Aveva provato a inseguire, a far a pari con le botte. Il conto è rimasto dispari, la fatica e la delusione hanno prevalso. Poco male per Pidcock. Tutto male per l’olandese. La loro sfida è solo rimandata. Qualsiasi sia il terreno d’incontro.