Tokyo 2020 – Sentimento Carapaz

Tokyo 2020 – Sentimento Carapaz

24/07/2021 0 Di Giovanni Battistuzzi

Ci si allea mica con i più forti. Che si arrangino. Ai più forti non servono aiuti ulteriori, dovrebbero bastare a loro stessi. I più forti sono pochi e sospettosi tra di loro. Si temono il giusto, sanno che non possono lasciare strada e distacco perché potrebbe essere fatale per le loro ambizioni. Per questo si guardano, si osservano, hanno per i loro pari categoria un occhio di riguardo. A tutti gli altri un po’ di strada e un po’ di distacco glielo si può pure lasciare, ma non ai più forti.

Ai forti per battere i più forti servono gambe, soprattutto tempismo e la speranza che nessuno si metta in mezzo ai loro piani d’attacco. Richard Carapaz sapeva di non appartenere ai più forti, al massimo poteva essere tra i migliori dei forti, ma sapeva che le gambe giravano a meraviglia e che per mettersi al collo una medaglia olimpica aveva un’unica possibilità: partire alla carica nel momento esatto nel quale i più forti si sarebbero guardati negli occhi. E sperare che qualcuno lo seguisse.

Quel momento è arrivato a circa venticinque chilometri dall’arrivo. Jakob Fuglsang era stato appena ripreso, Wout van Aert e Tadej Pogacar si sono guardati, hanno saltato due pedalate. Lì Carapaz è scattato. E con lui il miglior compagno di viaggio possibile: Brandon McNulty, uno che va forte ovunque, che sul passo mena forte e che non ha nessuna remora a faticare, perché anche un argento sarebbe un risultato meraviglioso. L’ecuadoriano e lo statunitense hanno salutato tutti. Richard Carapaz non l’hanno più ripreso: oro olimpico, il primo per l’Ecuador.

A Tokyi

McNulty invece il gruppetto l’ha inghiottito e digerito. Quando ci si stacca dal primo dopo aver sognato la vittoria va sempre a finire così: le fatiche sono ingigantite dalla delusione e le energie si azzerano più del necessario.

A Tokyo 2020 Wout van Aert e Tadej Pogacar erano i più forti. Il primo aveva vinto su ogni terreno al Tour de France: salita, cronometro, volata. Il secondo la Grande Boucle l’aveva dominata. Il belga poteva aspettare lo sprint, lo sloveno doveva staccare van Aert o quanto meno affaticarlo a sufficienza. Wout van Aert però oggi non si riusciva ad affaticarlo. Sul Mikuni Pass, la salita più irta del percorso olimpico, si era staccato, ma solo per gestire lo sforzo, era rientrato su Pogacar che aveva acceso la rivolta, si era messo a fare quello che i più forti devono fare: mettersi davanti, dettare il ritmo, governare la corsa.

Tadej Pogacar aveva sperato di poter rimanere solo. Senza nessuno attorno si pedala meglio, non si hanno impicci o sorprese. I piani erano quelli: mettere sull’asfalto la propria legge e trasformare il resto in una meravigliosa passarella celebrativa del proprio talento. Non sempre va come si pensa dovrebbe andare.

Brandon McNulty e Michael Woods la ruota dello sloveno l’avevano ripresa subito, Richard Carapaz, Michal Kwiatowski e Alberto Bettiol erano riusciti a rientrare qualche chilometro. Tutti gli altri, in realtà ben pochi, avevano ripreso la testa della corsa prima (o subito dopo) lo scollinamento, grazie anche e soprattutto al lavoro di van Aert.

In cima il belga si era convinto di potercela fare. Si è accollato gran parte del lavoro, aveva ridotto il vantaggio di Carapaz e McNulty a una ventina di secondi. Aveva chiesto una mano a qualcuno per chiudere, nessuno gliela ha però concessa. Ci si allea mica con i più forti.

Chilometro dopo chilometro, rifiuto d’aiuto dopo rifiuto d’aiuto, Wout van Aert si è adombrato, arrabbiato, adirato. Si è trovato in mezzo ai succhiaruote, impossibilitato a raggiungere quella medaglia che avrebbe sicuramente dato un tono al curriculum e che pensava tutto sommato di meritare.

Wout van Aert all’arrivo è arrivato oltre un minuto dopo Richard Carapaz. Se ne è fregato dello spirito olimpico, non ha esultato per il piazzamento. De Coubertin era un perdente e l’importante non è partecipare, ma vincere. Lo sa bene Richard Carapaz che l’oro l’ha messo al collo e in saccoccia, che ha reso evidente che i più forti non sempre vincono, che servono gambe e intelligenza per mettere nel sacco chi potrebbe accaparrarsi tutto. Il ciclismo non è scienza esatta, a volte conta ancora il sentimento, l’ispirazione giusta. E di queste caratteristiche Carapaz è colmo.