Coppi e il sospiro dell’Alpe d’Huez

Coppi e il sospiro dell’Alpe d’Huez

01/07/2022 0 Di Giovanni Battistuzzi

“Vai piano Sandrino, piano”.

Carrea brillava in testa al gruppo avvolto nella sua maglia gialla. Alle sue spalle Coppi sbuffava, ogni tanto digrignava i denti come stesse soffrendo le pene dell’inferno.

“Vai piano Sandrino, piano”, disse di nuovo al suo gregario, storcendo le labbra. Era il loro modo di intendersi, il loro parlare cifrato. E sì che Fausto al via gli aveva detto di starsene buono, di far gara per sé e non per lui, che con quella maglia non si lavora per altri. Ma, testa dura com’era, Sandrino non aveva sentito ragioni e appena la strada aveva iniziato ad alzarsi si era messo in testa a menare sulle pedivelle. Coppi l’aveva lasciato fare, sapeva che non c’era verso di far cambiare idea a Carrea quando voleva fare una cosa.


Il 4 luglio del 1952 si corse la decima tappa del Tour de France, la Losanna-Alpe d’Huez di 266 chilometri. Mai prima di allora la Grande Boucle aveva posto un traguardo in cima a una salita (il secondo fu dopo due giorni, al Sestriere, anticipato dalle scalate di Croix de Fer, Galibier, Monginevro). Il racconto di quel giorno è contenuto nel libro “Alfabeto Fausto Coppi“, scritto con Gino Cervi e illustrato da Riccardo Guasco.


A tutti quei “piano”, Jean Robic si era convinto che quella era la giornata buona per lasciarsi alle spalle l’italiano. Era scattato, un allungo secco, tagliente, uno dei suoi. Quando si girò per vedere i danni che aveva fatto comparve una sagoma soltanto, quella affilata di Fausto Coppi. Il resto del gruppo saliva sparpagliato per quella montagna con un solo lato. Si arrivava in cima, mica cosa da tutti i giorni.

Testa di vetro andava a scatti e cambi di ritmo, botte che facevano male ai polpacci e momenti di tranquillità. Fausto sbuffò, non era quello che gli piaceva. Si mise in testa, iniziò a pedalare al suo ritmo, sempre lo stesso: veloce e inesorabile.

E mentre i tornanti aumentavano, la gente a bordo strada diminuiva, iniziava a scomparire. Rimasero soli tra alberi e prati, con un paio di macchine al seguito e due moto a far loro strada.

Coppi si guardò attorno, il suo sguardo si perse in una solitudine alpina che non aveva mai visto, in una via montana che non aveva mai affrontato, in una pacifica e solitaria bellezza. Curve e tornanti polverosi che si incuneavano tra boschi e precipizi, accompagnati da costoni di roccia e su nel cielo un volteggiare d’aquile pronte a planare al primo momento di difficoltà dei corridori.

I tifosi sparirono dalla strada, il vento smise di rumoreggiare, rimase soltanto il rumore di fondo dei motori, il tambureggiare del respiro affannato del francese che a ogni sua minima variazione di velocità si affrettava e diventava più forte.

Coppi era piantato sul sellino, Robic si aggrappava al manubrio. Fausto guardava avanti verso la cima del monte, si chiedeva quanto mancasse all’arrivo. Jean osservava solo la ruota che lo precedeva, pregava che quella fatica finisse presto. L’italiano si asciugò la fronte, bevve un sorso d’acqua, accelerò un po’. Il ronzio del respiro del francese si fece più roboante, risuonò per la montagna come fosse un panzer tedesco. Coppi si alzò sui pedali, quattro pedalate giusto per sgranchirsi la schiena, poi si risedette in sella. Allez Faustino, allez, sussurrò a se stesso.

Strinse i denti e calò il silenzio.

Aumentò ancora il ritmo, aguzzò le orecchie. Niente. Il silenzio della montagna lo avvolse. Fece quello che non aveva mai fatto, girò la testa e non vide nulla. Sorrise. Si voltò ancora. Sullo sfondo Robic zigzagava a bocca aperta tra il ghiaino della strada. Provò un senso di liberazione. La strada spianò un attimo, la montagna si aprì davanti a lui, lasciando intravedere quattro case e un alberghetto. La gente ricomparve a bordo strada, lo striscione di arrivo iniziò a brillare sotto il sole alpino. Ci passò sotto, primo di giornata, primo nella storia. Primo e basta, maglia gialla.