Il Col de Joux-Plane di Marco Pantani

Il Col de Joux-Plane di Marco Pantani

15/07/2023 0 Di Giovanni Battistuzzi

Il Tour de France scala il Col de Joux-Plane prima di scendere a Morzine. Era il 21 luglio del 1997 quando sul Col de Joux-Plane Marco Pantani realizzò una delle sue imprese più belle e meno attese


Le estati bambine le passavo al mare, a Caorle. E le passavo sempre allo stesso modo, tra l’appartamentino che avevamo, abbiamo, e la spiaggia. Su e giù il mattino, su e giù il pomeriggio. Agosto era il mese con più sabbia e acqua, c’era solo sabbia e acqua. Luglio no, ce ne era meno anche se era sempre là, sempre alla stessa distanza. A luglio c’è il Tour de France e Tour de France all’epoca voleva dire soprattutto una cosa: correva Marco Pantani e allora tutto passava in secondo piano almeno per qualche ora al pomeriggio. Perché Marco Pantani a volte il Giro d’Italia non lo correva, perché alle prese sempre con qualche sfiga che gli capitava addosso, ma al Tour c’era sempre. Si vede che la scalogna era meno attratta da lui d’estate. Era bello vedere Marco Pantani al Tour de France, anche se aveva la maglia meno gialla e più blu, diversa e invertita nella colorazione rispetto a quella che avevo, ho, io. Del tutto differente da quella bianca e jeans dei miei primi ricordi di lui pedalante.

L’estate del 1997 era stata una bella estate. Era partita benissimo. I miei amici del mare erano scesi presto, non avevano aspettato agosto. Soprattutto alla prima retina di biglie era saltata fuori quella che volevo, che desideravo da almeno tre anni. La sua, quella di Marco Pantani. L’avevo fatta mia, non usavo altre. Solo quella, quella di Marco Pantani.

Le mattine erano bagni in mare, melone fresco, ginocchia a terra e dita indolenzite. E pionierismo ingegneristico. Abbiamo rischiato la laurea ad honorem in progettazione di piste per le biglie. Erano talmente belle che venivano a vederle pure dagli stabilimenti vicini.

Il giorno che Marco Pantani vinse all’Alpe d’Huez ne avevamo fatta una con una curva parabolica che nemmeno al Vigorelli. E poi una serie di chicane talmente tecniche e ben disegnate che con il colpo giusto si faceva la differenza e si mollava la compagnia delle altre biglie.

Mancava qualcosa però. Per un giorno ci pensammo su.

Ci fu chiaro che con le biglie dei corridori era un peccato imitare le forme dei circuiti. C’avevamo mica Michael Schumacher, Jacques Villeneuve, Mika Hakkinen, David Coulthard o Jean Alesi nei tondini di carta. E nemmeno Nigel Mansell, che non correva più ma era comunque il mio preferito.

C’avevamo i corridori.

E allora iniziammo a scavare con le palette e ad accumulare sabbia su sabbia. Servivano le montagne, le avremmo fatte, anche se eravamo in riva al mare. Perché funzionava così allora il ciclismo: Marco Pantani era nato in riva al mare e conquistava le montagne. E pure noi decidemmo di fare così nel nostro piccolo.

Quella sì che fu una gran pista.

Avevamo davanti tre montarozzi che ci sembravano enormi, ma da nemmeno un metro e mezzo tutto sembra più grande. E c’erano i tornanti, perché i tornanti sono la più grande invenzione della montagna. E dopo ogni tornante, con parabolica annessa c’era un pianoro dove potevano fermarsi le biglie. Ed erano mica pochi i tornanti. Per quella la laurea ad honorem ce l’avrebbero data davvero. Peccato non ci fosse un professore universitario nei paraggi, o quantomeno tra quelli che si fermavano a vedere la nostra grande creazione.

Far salire le biglie sui montarozzi era difficile, ma era in discesa che si poteva fare il colpo da maestro, sfruttare al massimo le traiettorie per incrementare il vantaggio o rientrare sui fuggitivi. Credo che sia iniziata in quel momento la mia passione per le discese e quindi per le salite. È senz’altro iniziata allora la mia convinzione che siano più belli ed emozionanti gli arrivi a valle, che c’aveva ragione Henri Desgrange che “per vincere il Tour, un atleta deve dimostrare di essere il più forte e il più completo. E per dimostrare di essere il più completo deve dimostrare di andare forte anche in discesa e non avere paura”.

Non ricordo chi vinse quel giorno. Tutti i ricordi di quella mattina, lunghissima – sfidammo la pretesa dei nostri genitori di rientrare a casa a mezzogiorno, era troppo enorme la nostra creazione -, sono un po’ sfumati, avvolti dalle nuvole di un pomeriggio spettacolare.

Perché quel pomeriggio, salendo verso il Col de Joux-Plane, Marco Pantani scattò e nessuno lo riuscì nemmeno a contrastare.

Non era la prima volta che accadeva. Non sarebbe stata l’ultima. Quel giorno lì però non era attesa. Perché Marco Pantani lo davano per quasi ritirato, pieno di tosse e mal di gola. Il giorno prima, verso Courchevel si era preso una bella legnata da parte di Jan Ullrich, che quell’anno era un bulldozer, di Richard Virenque, che andava en danseuse che era una meraviglia. Evvabbé, ci poteva stare. Ma anche da Fernando Escartin, Laurent Dufaux e Bjarne Riis no. Stava male davvero.

E stava male pure alla partenza. Tossiva e aveva freddo, con la faccia di chi non aveva dormito la notte prima.

Non poteva essere giornata, dicevo. L’aveva scritto pure Gianni Mura, quindi ero sicuro.

E invece.

E invece Marco Pantani si era alzato sui pedali e li aveva mossi veloci con le mani sulla parte bassa del manubrio, creando quel bellissimo vuoto che sapeva creare solo lui. Pedalava che era una meraviglia, saliva tra gente che gridava allez e Pantanì, che ormai i francesi l’avevano imparato a riconoscere e a volergli bene. Non è vero che i francesi odiano gli italiani, è una invenzione idiota di chi non ha mai visto i Tour de France di Marco Pantani.

Arrivato in cima pensavo, pensavamo, che il meglio fosse passato. E invece ce ne era ancora a ampie dosi. Perché giù dal Col de Joux-Plan Marco Pantani dipinse, pneumatici su strada, uno di quei disegni che verrebbe voglia di appendere a casa e guardare ogni giorno. Una discesa che era bella come una salita.

Non andai in spiaggia quel pomeriggio. Uscii in bicicletta per sentirmi Marco Pantani.

Il giorno dopo la pista, il nostro capolavoro ingegneristico, non c’era più. Avevano lisciato tutto. È sempre stata sottovalutata l’ingegneria.