
Tour de France. Vingegaard e la celebrazione del ciclismo
21/07/2022Non si confà a certi arrivi l’alzata di mano, la più classica e abusata delle celebrazioni del ciclismo. E non si confà neppure l’invenzione di qualche altro modo esuberante di esultare. I Pirenei sono sobri e solitari, hanno poco o nulla di mondano, checché ne pensino i britannici che fanno i film sulle spie. Non si confà tutto questo soprattutto quando già gli ultimi chilometri di una salita, di un arrivo in salita, sono stati una celebrazione, certamente del talento, soprattutto del ciclismo.
Jonas Vingegaard non ha alzato le mani sotto lo striscione d’arrivo di Hautacam, che stazione sciistica lo è, ma ben più sobria di quelle alpine francesi. Jonas Vingegaard non ha alzato le mani, ha accarezzato con il pugno il cuore e poi ha allargato il braccio destro in segno di ringraziamento, quasi fossero stati i tifosi i protagonisti della tappa pirenaica e non lui. Non lui che ha messo un altro minuto abbondante tra la sua maglia gialla e Tadej Pogacar; non lui che è rimasto solo a tre chilometri dall’arrivo dopo che Wout van Aert aveva esaurito l’ultima parte del suo compito, quello di traghettare per qualche migliaio di metri il compagno vestito di giallo, dopo aver traghettato se stesso per le montagne come fossero colline.
Serviva a Jonas Vingegaard una vittoria in maglia gialla e forse serviva pure al Tour de France. Perché anche i migliori racconti hanno bisogno di un minimo di autocelebrazione e certe foto, la maglia gialla prima di tutti e senza nessuno attorno all’arrivo, sono una di quelle immagini che si ficcano lì, tra i ricordi, soprattutto se quello che è avvenuto prima è stato un altro racconto strepitoso di un Tour de France che difficilmente scorderemo e che vorremmo potesse durare ancora un po’, o quanto meno riproporsi così, non proprio così magari – che tra caldo e Covid i corridori non se la sono passata proprio al meglio –, di anno in anno, di edizione in edizione che questi corridori interstellari ci vorranno concedere.
Serviva perché questo Tour è una gran storia, una di quelle che va ben oltre anche alle nostre speranze più ottimistiche.
Ben prima dell’editore tedesco Axel Springer, che sentenziò che un giornale si vende se ci sono “soldi, sesso e sangue”, furono H. L. Mencken e George Jean Nathan, i creatori del pulp magazine Black Mask, a convincersi che se sarebbe stato davvero scritto il Grande romanzo americano non poteva non muoversi attorno a questo: “Sesso, soldi, sangue”, perché l’America era questa, “sesso, soldi e sangue”.
Pure il grande romanzo del ciclismo segue tre S, ma al sesso e ai soldi preferisce scatti e sprint. Solo il sangue resiste, perché, spiace ammetterlo, è anche nelle sfortune, nelle cadute e nel rialzarsi, che questo sport affascina, diventa unico. Servirebbe aggiungere una F, quella della fuga, ma non c’è fuga senza scatto, quindi teniamoci l’estensione e non la riduzione.
In quel magnifico capitolo che è la sfida per la maglia gialla del grande romanzo del ciclismo che è questo Tour de France mancava soltanto il sangue, che di scatti e sprint che ce ne erano già stati a bizzeffe, molto più di quelli pronosticabili. Ce l’ha messo Tadej Pogacar cadendo nella discesa del Col de Spandelles, lacerandosi i pantaloncini, tingendo di rosso la sua gamba sinistra.
Poteva attaccare e andarsene Jonas Vingegaard. In fuga c’era Wout van Aert, uno dei pochi in gruppo che si può fregiare del titolo di aver tenuto dietro, e non solo a questo Tour, sia i migliori velocisti, sia i migliori cronoman, sia i migliori scalatori, e questo accade solo ai migliori e basta. La maglia gialla avrebbe potuto sfruttare il lavoro del compagno e togliersi di mezzo anche solo il rischio di pagare pegno a cronometro. Non ci sarebbe stato nulla di male, avrebbe fatto bene, che si sa che nel ciclismo ha sempre ragione chi sta in piedi. Non l’ha fatto. Lo ha aspettato, anche in modo evidente, girandosi, cercandolo, quasi dicendo come il pugile di un racconto di Boris Vian: “Io non voglio che tu ti faccia male, voglio essere io e solo io a farti male”.

Nulla di diverso da quello che aveva fatto poco prima Tadej Pogacar. Verso la cima del Col de Spandelles Pogacar aveva attaccato sei volte, ma non quando Geraint Thomas aveva provato l’allungo, quello da furbone che sa che a volte meglio fare una cosa del tutto superflua, pur di far sapere a tutti che si è lì. Pogacar voleva staccarlo lui, Vingegaard, e solo lui. E per lo stesso motivo: “Io non voglio che tu ti faccia male, voglio essere io e solo io a farti male”.
Alla fine a farsi male è stato Tadej Pogacar e da solo. Ed è questo il solo rammarico in una corsa che non ha e non può avere nessun rammarico. Come nessun rammarico ce l’ha o deve averlo Tadej Pogacar. Dopo il traguardo ha cercato con gli occhi il rivale, ma sorridendo, con la levità di chi sa benissimo che certe cose possono andare anche così, che il Signore dà e il Signore toglie e non c’è niente da fare. Di chi sa, soprattutto, che tra un anno, e pure prima se ci sarà occasione, le botte prese saranno ridate. E così sia.