Il Tour of Britain era una sfida a colazione

Il Tour of Britain era una sfida a colazione

14/09/2021 0 Di Giovanni Battistuzzi
  • Per anni, prima della corsa a tappe britannica (prima edizione nel 2004) nel Regno Unito il ciclismo era diviso tra la Milk Race e il Kellogg’s Tour. Uno scontro culturale (e commerciale)

Così tante persone a bordo strada non ci sono mai state. Salitelle che si trasformano, almeno per colpo d’occhio, in vette alpine, campagne affollate quasi come quelle fiamminghe e francesi, arrivi animati da un pubblico degno di una classica. Era mica facile aspettarselo che il Tour of Britain potesse arrivare a generare tanto interesse nel Regno Unito.

Pure uno come William E. LaMothe, se glielo avessero detto qualche anno fa, avrebbe fatto fatica a crederci. E sì che l’ex presidente della Kellogg’s aveva scommesso sul ciclismo in Gran Bretagna. “Diventerà uno degli sport più seguiti nel Regno”, disse nel 1986 annunciando l’intenzione di far nascere una corsa a tappe che avrebbe dato lustro al ciclismo isolano e garantito una bella pubblicità all’azienda. Fosse stato per lui avrebbe continuato in eterno la partnership, convinto com’era del futuro radioso della bicicletta. Gli altri vertici dell’azienda però non erano d’accordo e l’accordo di sponsorizzazione venne chiuso nel 1994. Non aveva più senso continuare, dissero allora. Il mercato delle biciclette non cresceva e soprattutto la sfida della colazione era finita. Ed era stata vinta.

“In Gran Bretagna ci si deve sfidare sempre per qualcosa, altrimenti non ci si diverte. E quando non c’è più sfida si getta tutto a monte, come se nulla fosse successo. I cereali senza il latte non si possono mangiare, per questo ora il ciclismo è scomparso dal Regno”, disse nel 1995 a Cycling Weekly Ethan Lowry, che per quasi quarant’anni fece l’umorista e l’autore televisivo.

Era andato da pochi mesi in pensione quando racconto che il suo rimpianto più grande fu quello di non essere riuscito a convincere la BBC a dargli il via libera per realizzare un grande documentario sulle corse di biciclette nel Regno Unito. “Sarebbe stato un grande affresco del ciclismo britannico, biciclette e sense of humor. Siamo decenni indietro rispetto agli altri paesi e allo stesso tempo decenni avanti, ancora indecisi su cosa sia davvero lo sport. È una rarità. Perché se in tutta Europa il ciclismo è una cosa seria, da noi è sempre stato e ancora è commedia”.

La bicicletta in Gran Bretagna tra professionismo e dilettantismo

Come quella per l’ottenimento del primato nel cuore a pedali della gente. Da una parte il dilettantismo e l’amatorialità, dall’altra il professionismo. Da una parte il Milk Marketing Board e la Milk Race, dall’altra la Kellogg’s e il Kellogg’s Tour.

Dove se non in Gran Bretagna il ciclismo poteva diventare un tema da colazione?

Perché almeno per tutti gli anni Ottanta il Regno Unito continuava a essere uno dei pochi paesi nel quale sussisteva ancora il dibattito tra dilettantismo e professionismo, tra chi diceva che la bici era pura passione e non lavoro e chi sosteneva che non c’era nulla di male a trasformare la prima in una professione.

La Milk Race era la corsa dei primi, un inno all’anarchia ciclistica. Il Kellogg’s Tour quella dei secondi, un tentativo di portare nel Regno la grandeur delle grandi corse a tappe. E poco male se non c’erano le grandi salite, “una grande corsa non si fa solo con le lunghe ascese, quello che è indispensabile sono le tappe dove tutto può succedere, quelle che possono essere terreno d’elezione del coraggio”, disse l’organizzatore della prima corse a tappe per professionisti nel Regno Unito.

Due versioni diverse di uno stesso sport, uno scontro culturale che arrivò anche su Commodore 64 con due videogiochi usciti a pochi mesi di distanza, Milk Race a fine 1987, Kellogg’s Tour 1988, a maggio del 1988.

La Milk Race apparve nei calendari ciclistici nel 1958 con l’idea, parecchio ambiziosa, di trasformarsi nella più dura e importante corsa a tappe per dilettanti e amatori. Non c’era un limite massimo d’età, l’unico requisito era quello di non avere un contratto in una squadra professionistica.

La ricetta era semplice: tutte le tappe dovevano superare le cento miglia e dovevano presentare almeno una mezza dozzina di salitelle. Il formato piacque soprattutto ai corridori. Ci vollero meno di una decade per portare nel Regno Unito una gran parte del meglio che il dilettantismo europeo poteva offrire. Nel suo albo d’oro spiccano corridori capaci di vincere un Giro d’Italia come Gösta Pettersson, raffinati interpreti delle classiche come Hennie Kuiper, vincitori di tappe nei grandi giri come Fedor den Hertog e Eric Van Lancker (che conquistò, tra le altre cose, anche una Liegi-Bastogne-Liegi).

Per oltre un decennio la Milk Race riuscì a competere con il Giro d’Italia dilettanti e il Tour de l’Avenir per prestigio. Poi le cose iniziarono ad andare male. A cambiare non era stata la corsa: sempre durissima, sempre affascinante e aperta e incerta. A cambiare fu tutto il resto: il contesto, soprattutto l’immaginario.

La crisi

La seconda metà degli anni Ottanta segnò prima il rallentamento, poi la contrazione della diffusione delle biciclette nel Regno Unito dopo il semi-boom degli anni Settanta. E con loro avanzò un disinteresse sempre maggiore per il ciclismo su strada, specialmente quello dilettantistico.

Se i dati sul traffico a pedali in Gran Bretagna rilevano una modesta decrescita in quegli anni (dal 1985 fino al 1994) sono quelli delle vendite di biciclette a far capire cosa cambiò allora: a essere acquistate erano soprattutto mountain bike, arrivate dagli Stati Uniti già nel 1980.

L’interesse degli inglesi si spostò in parte verso i campi, le ruote grasse. L’attenzione per le gare su strada si ridusse. E a pagare il prezzo più alto fu il movimento che provava a resistere al professionismo, che considerava il ciclismo come pura e semplice passione. L’avvento poi di una generazione di corridori finalmente vincenti come gli irlandesi Stephen Roche e Sean Kelly e gli inglesi Robert Millar e Malcolm Elliott, spostò definitivamente l’interesse dei britannici sul professionismo, ben più facile da vedere grazie alle dirette tv.

Le gare dedicate agli amatori si contrassero nella stampa, si ridussero di un terzo e tra quelle che sparirono ci fu pure la Milk Race. La corsa provò ad aprire ai professionisti nel 1985, ma fu un scelta che portò pochi sponsor e che fece scappare i ciclisti più radicali.

Nel 1993 fu corsa per l’ultima volta. Il Kellogg’s Tour gli sopravvisse un anno in più soltanto. Gli appassionati britannici avevano smesso di interessarsi anche a quella corsa. Giro e Tour gli arrivavano a casa e il Kellogg’s Tour nonostante gli sforzi non era mai riuscito a portare nel Regno il meglio del ciclismo mondiale.

Il ritorno della passione per le biciclette in Gran Bretagna

Per anni nessuna corsa a tappe di livello internazionale venne corsa nel Regno Unito. Nessuno sentiva l’esigenza di investire soldi e tempo in un progetto fallimentare.

Poi arrivò il 2002.

Fu in quell’anno che Chris Hoy e compagni vinsero tre ori nei mondiali su pista e che il mercato della bicicletta dopo anni di stanca iniziò a riprendersi. Fu soprattutto in quell’anno che iniziò a crescere per la prima volta dopo decenni il numero di randonnée e gare di endurance. La Federazione inglese, che già verso la fine degli anni Novanta aveva creato la sua Junior accademy per la pista, decise nel 2001 di investire davvero nella crescita del movimento puntando anche sulla strada. In un anno le iscrizioni triplicarono. E così la British Cycling Federation decise che non ci poteva essere stabilizzazione della crescita senza un evento che potesse attirare pubblico.

In due anni andò alla ricerca di contatti e contratti. All’inizio del 2004 ritennero che ce ne fossero abbastanza per dare il via al primo Tour of Britain. Il progetto era serio, il piano decennale, i soldi investiti non pochi, soprattutto c’erano gli accordi con grandi squadre. E poi c’era alle spalle di tutto parte del comitato organizzatore delle Olimpiadi di Londra 2012.

Dalla prima edizione a quella che si è conclusa domenica sono passati diciott’anni e diciassette edizioni (a causa della pandemia che ha fatto annullare quella del 2020). Il Tour of Britain da corsa di contorno si è evoluta, ha raccolto sempre più interesse, e da qualche anno anche i grandi protagonisti. Julian Alaphilippe e Wout van Aert l’hanno animato la scorsa settimana (con la vittoria finale andata al campione belga davanti a Ethan Hayter). Mathieu van der Poel e Matteo Trentin due anni fa.

“Non diventerà mai una corsa di tre settimane. L’obbiettivo è però quella di renderla una tra le più ambite corse di una settimana. In Gran Bretagna non abbiamo le lunghe salite, ma ci sono colline dure e selvagge che messe assieme possono fare male quanto un duemila metri. Vedrete, ci sarà da divertirsi da qui ai prossimi cinquant’anni. Perché il ciclismo è uno sport destinato a crescere esponenzialmente, perché le biciclette sono destinate a crescere esponenzialmente nei prossimi anni”, disse Hugh Roberts, uno dei creatori del SweetSpot group che organizza il Tour of Britain. Era il 2004, c’aveva visto lungo.