
Tour of the Alps – L’altra faccia della montagna
22/04/2021L’altopiano di Boniprati è da sempre luogo di passaggio e cambiamento. Gli abitanti delle valli ci salivano all’arrivo degli invasori; gli allevatori conducevano le bestie verso aprile e lì si fermavano aspettando il momento buono per per proseguire verso l’alpeggio; i banditi lassù riuscivano a trovare qualche nascondiglio tra paludi e grotte quando la legge li reclamava.
Funziona così da sempre. Non poteva essere che così anche oggi, quando la quarta tappa del Tour of the Alps l’ha attraversato, ultima difficoltà altimetrica prima dell’arrivo di Pieve di Bono.
Per arrivare all’altopiano ci sono otto chilometri e quindici tornanti. Per raggiungere il Gran premio della montagna serve però percorrere altri due chilometri, che allungano la distanza e addolciscono la pendenza media, una gentilezza per statistici. Ai corridori cambia ben poco. Tanto ben prima dell’inizio dell’altopiano quello che aveva da dire la salita l’aveva già detto.
Il gruppo aveva ripreso gli avanguardisti del mattino [Attila Valter (Groupama-FDJ), Amanuel Ghebreigzabhier (Trek), Luis Leon Sanchez (Astana), Felix Großschartner (Bora-hansgrohe), Chris Froome (Israel Start-Up Nation), Hermann Pernsteiner (Bahrain-Victorious), Nicolas Prodhomme (Ag2r-Citroen), Nicolas Roche (Team DSM), Marton Dina (Eolo-Kometa)]; la Ineos lo aveva reso un gruppetto; Hugh Carthy aveva dimostrato un’altra volta ancora di non aver paura di scattare e di provare ad avventurarsi da solo per montagne; Pavel Sivakov aveva deluso le aspettative dei suoi compagni piantandosi nel momento peggiore, ossia quando erano iniziati gli attacchi; Simon Yates aveva fatto capire a tutti di essere quello più in forma, il capicordata al quale toccava in qualche modo mettersi a ruota. Solo , Aleksandr Vlasov e Dan Martin ci sono riusciti. Gli altri tutti sparpagliati per tornanti e rettilinei.
Fosse finita lassù la tappa avrebbe avuto il finale che gli entusiasti della salita considerano il più giusto: quello che esprime il valore ascensionale. Ma la corsa non finiva in cima all’altopiano di Boniprati, all’ascesa si doveva sommare la discesa.
Eraclito non poteva conoscere la bicicletta, l’ha anticipata di parecchi secoli, e nemmeno il ciclismo. Altrimenti non avrebbe affermato che “la via in su e la via in giù sono un’unica identica via“. La sommatoria tra ascesa e discesa non fa mai zero, pende sempre da una parte. Oggi dalla parte del lato diventato con gli anni il lato meno nobile della montagna, quello che gli organizzatori delle corse hanno sacrificato sull’altare dell’arrivo in quota, quello che televisivamente rende meglio.
Pello Bilbao ha scavallato il Gran premio della montagna con quasi trenta secondi da Simon Yates e Aleksandr Vlasov, oltre una dozzina da Dan Martin. L’ha fatto con il fiatone degli inseguitori, quello che alimenta la speranza che qualcosa possa cambiare, che gli avanguardisti possano essere preda della rilassatezza di chi pensa che il peggio è alle spalle e che tutto è ormai deciso.
Pello Bilbao solo di una cosa era certo. Che lì sarebbe iniziato il bello. S’è chiuso la maglietta, ha impugnato il manubrio nella curva bassa, si è lanciato a valle come non ci fosse il domani. La salita è attenzione chirurgica per il presente, del passato e del futuro se ne frega.
Pello Bilbao ha reso onore all’altra faccia della montagna, l’ha elevata a gran romanzo, a epopea cavalleresca. Ha soprattutto riscritto ciò che doveva essere ma non è stato. Prima ha staccato Hugh Carthy, poi ha ripreso e superato Dan Martin, finito due volte per terra (e arrivato 23esimo a quasi tre minuti), infine ha agguantato i due di testa. Non che Simon Yates fosse sceso a valle di gran lena, ma tant’è: ognuno rischia quanto ritiene giusto rischiare. Pello Bilbao non ha rifiatato, ha tirato dritto. In un chilometro circa ha sfaldato la compattezza dei furono primi e ha rischiato di seminarli. Troppo poco mille metri, tra l’altro i meno difficili, per poter ambire a dar più di un paio di secondi a Yates e altrettanti a Vlasov. Abbastanza però per allungare il giusto per rendere complicato il rientro, trasformare la fine della discesa in un lungo sprint. Vincente.
Pello Bilbao sotto lo striscione d’arrivo di Pieve di Bono non ha alzato le mani al cielo. Si è limitato a un sorriso, a un pugno mosso in qualche modo all’aria. La stessa che aveva sfidato planandoci sopra.