
Tullio Campagnolo che cambiò per sempre il ciclismo
18/05/2016Il ciclismo è sport di fatica, sempre, campioni, spesso, imprese, a volte. E’ sport di luoghi che richiamano ricordi, protagonisti di un tempo, vittorie, scatti, sconfitte. E’ forza e tecnica, perché gli atleti in corsa sono un’unica cosa con la bicicletta, vivono e subiscono le sue migliorie e le sue rivoluzioni. In oltre un secolo e mezzo di vita la bicicletta si è trasformata pur rimanendo uguale, due ruote, un telaio, una sella e un manubrio, sempre gli stessi, sempre diversi. Le vittorie di oggi sono figlie delle idee di un tempo, di intuizione dettate dall’esigenza di rendere meno faticoso il pedalare o almeno più agevole. E dietro a tante di queste migliorie c’è un personaggio solo, ciclista prima, meccanico poi, imprenditore, uno dalle ciglia folte, dal viso burbero, dalla battuta tagliente, Tullio Campagnolo.
Campagnolo è veneto, di Vicenza. Lì ha iniziato a pedalare, è diventato professionista, ha corso tre anni (ottenendo pure una vittoria nel 1930), ha capito che la sua strada era un’altra, sporcarsi le mani di grasso e limatura, risolvere problemi. Perché questo ha fatto sempre, osservare le biciclette e migliorarle, come mai nessuno prima, un mister Wolf delle due ruote.
Tullio era uno della prima scuola, di quelli fedeli al comandamento che per essere un corridore è necessario prima di tutto capire come una bicicletta si muove. Lo faceva da atleta, l’ha continuato a fare da meccanico e imprenditore, continuando a correre, perché la bici non l’ha mai lasciata, la studiava, ideava, testava, sempre pedalando su di essa.
Campagnolo corre tra i pro tra il 1927 e il 1930, discreto passista, uomo di fatica, “dalle gambe toste e il cervello fine”, disse di lui Luigi Ganna. Corre e riflette perché “pedalar xé duro e fadigar non piase a nisun. Mi so’ sta’ coridor, e so de cosa parlo”, disse ad un giornalista della Gazzetta negli anni Cinquanta. La missione di Tullio è sempre stata una: semplificare, rendere semplici azioni sino ad allora complesse. E’ il 1927, l’11 novembre, si corre il Gp della Vittoria a Vittorio Veneto. I corridori arrivano alle pendici del Croce D’Aune, il monte che domina Pedavena, si fermano e girano la ruota per inserire il rapporto da salita. Fa freddo, Tullio ha le mani dure, le chiavi inglesi sono congelate, per cambiare la ruota ci mette oltre due minuti, esclama: “Bisogna cambiar qualcossa de drio” (bisogna cambiar qualcosa dietro). E’ la prima cosa che fa terminata la carriera. Entra in officina e quando esce ha in mano il mozzo a sgancio rapido, una leva che permette di smontare con un solo gesto la ruota. E’ la prima di alcune migliorie che rivoluzioneranno la bicicletta. Nel 1933 Tullio presenta il primo cambio a leve, che prevedeva l’uso di due aste metalliche per cambiare rapporto senza dover togliere la ruota. Non è il primo esemplare di cambio per bicicletta (già nei primi anni Dieci la Fiat aveva introdotto un mozzo che cambiava con una pedalata all’indietro), ma è il più leggero, il più efficace, il meno delicato.
E’ l’inizio, non si fermerà più. Continuerà a introdurre modifiche, migliorie, variazioni. Le due aste diventerà una, poi nessuna, sostituita da un cavo di trasmissione, il Gran Sport, primo cambio a deragliatore mai realizzato: anno 1949. Tullio segue le corse, parla con meccanici e corridori, riflette, poi si chiude in officina e realizza modelli e prototipi, li testa. La sua azienda che sino al 1940 aveva un solo dipendente, aumenta di grandezza e di importanza, diventa punto di riferimento, leader mondiale, esempio di innovazione e genialità, mentre lui rimane a lavorare in officina, a testare, a incaponirsi: “Se pol far tut, basta pensar, lavorar e capir cosa pol servir”. In tutti i campi, dalla bici al tavola: perché Tullio inventava quello che non trovava in commercio, come il cavatappi a due leve, come lo schiaccianoci a leva.