
Lo strano Velodrom di Berlino dell’Uci Track Champions League
03/11/2023Come ci si innamora del ciclismo su pista. Una sera al Velodrom di Berlino per l’Uci Track Champions League
Fuori dal Velodrom di Berlino, in fila ordinata c’è quasi un centinaio di persone. Chiacchierano, aspettano il loro turno per passare i controlli di sicurezza. Ci sono uomini e donne, anziani e bambini. Molti di loro hanno lo sguardo un po’ perso di chi a un velodromo non c’è mai entrato, quasi tutto non hanno nulla addosso che li può far ricondurre in modo sicuro al ciclismo. Alla bicicletta sì: giacconi antivento, guanti tecnici, scaldacollo, zaini di quelli che si possono appendere al portapacchi. Pure scarpe con gli attacchi. Pochissime casquette, i berrettini con il frontino corto, quelli che usavano, usano, i corridori. A Berlino oltre metà della popolazione non ha l’automobile, gran parte di questa per spostarsi usa anche la bicicletta. Molte delle persone che si trovano in fila al Velodrom ci sono finiti per osmosi.
Alcune non sanno praticamente nulla di quello che li attenderà. Un tizio sulla quarantina spiega all’amico come funzionano le gare su pista. Una tizia sulla trentina fa altrettanto con il ragazzo. Un nonno racconta al nipote quando lui andava alla Deutschlandhalle per vedere la Sei giorni di Berlino, quella di Berlino est, perché c’era pure quella dell’Ovest. Il bimbo sembrava interessato. Ha chiesto perché corressero sei giorni in un velodromo prima di informarsi se anche quel giorno i corridori avrebbero dovuto correre per sei giorni.

C’è chi fuori e dentro il Velodrom non ha mai visto una Sei giorni, chi non sa nemmeno cos’è una Sei giorni, chi non andrebbe mai al velodromo per vedere una Sei giorni e chi non se ne è persa mai una.
Non sono lì però per una Sei giorni, sono lì per l’Uci Track Champions League. Che è corsa molto diversa, molto più veloce, rapida e immediata. Nel giro di nemmeno quattro ore circa tutto inizia e termina, il tempo di un paio di birre almeno, un bretzel, un piatto di patatine e una currywurst. Poi si esce per continuare la serata altrove.

Ai velodromi per un periodo non ci andava più nessuno, a eccezione di Belgio e Paesi Bassi, ma nemmeno lì è andato sempre tutto bene negli ultimi. Ai velodromi la gente sta tornando, un po’ perché il ciclismo di oggi sconta meno la nomea di anni fa; un po’ perché di gente in bicicletta se ne vede molta di più e pedalando è più semplice appassionarsi; un po’ perché anche le corse su pista sono mutate un minimo, si sono fatte più vicine al modo di oggi di guardare le biciclette.
Che gli eventi del ciclismo su pista possano cambiare non piace ai puristi della pista.
Per anni pensavo di essere un purista della pista pure io, mi piacevano i surplace infiniti, e ancora adesso devo dire di provare un certo piacere a vedere due corridori fermi immobili sui pedali a “giocare” tra loro a chi molla prima. Sono sempre più rari i surplace nelle prove di Velocità (trovate qui tutto quello che c’è da sapere sulla prova di Velocità e sulle altre discipline del ciclismo su pista, così non serve che mi dilunghi in spiegazioni). Sono sempre più rari e più corti e questo può dispiacere ai puristi, ma fa felici gli altri, che sono i più, che sono poi quelli che sono tornati ai velodromi e hanno permesso di rendere fattibile organizzare una Sei giorni, una riunione su pista ecc. Con buona pace dei puristi.
Anche l’Uci Track Champions League non piace ai puristi, perché è veloce, concitata, televisiva. In pratica una semplificazione di quello che è il ciclismo su pista. Quattro prove, due di endurance (Scratch e corsa a eliminazione), ma su distanza accorciata, e due di sprint (Velocità e Keirin).
E non piace, almeno a parole, nemmeno agli appassionati di lungo corso dei velodromi, quelli che raccontano ai nipoti di quando andavano alle Sei giorni. I primi non so se siano mai andati a vedere una prova della Uci Track Champions League. Della seconda categoria ne ho visti invece parecchi al Velodrom per l’Uci Track Champions League. L’attrazione del velodromo è sempre irresistibile.
Il pubblico eterogeneo del Velodrom, che teneva assieme esperti e non esperti, giovani – anche giovanissimi – e meno giovani e ben navigati è un bel segnale. È l’evidenza che di interesse per il ciclismo ce ne è. A volte però serve cambiare qualcosa, avvicinare questo sport ai gusti delle persone che ciclicamente cambiano. Perché altrimenti rimangono solo in pochi, soprattutto i puristi e i puristi sono infinitamente noiosi.
Che nulla sia davvero immutabile ce lo dice la semplice osservazione della realtà. Poi c’ha pensato la fisica a tradurre tutto in formule matematiche. Anche lo sport risponde alle leggi della fisica.

Il ciclismo su pista ha visto sedimentare negli anni nei velodromi un certo disinteresse. Ha iniziato a spalarlo via, e così gli appassionati di un tempo sono pian piano tornati e di nuovi, molti, si sono avvicinati. E questo ben prima della prima edizione della Uci Track Champions League. Era il 2021. Questa manifestazione però è riuscita ad aggiungere qualcosa, soprattutto qualcuno.
Anche perché lo spettacolo è godibile e nel velodromo si possono vedere anche campioni che altrimenti si vedrebbero solo ai campionati del mondo o alle Olimpiadi. Ed è un peccato vedere certi corridori solo ai Mondiali e ai Giochi olimpici.
Al Velodrom di Berlino, tra molti ottimi interpreti, c’era ad esempio Harrie Lavreysen. L’olandese è una furia, è un piacere vederlo correre nella Velocità e nel Keirin. Ha una potenza strepitosa, il fiuto dei campioni. In pista ha vinto entrambe le prove. Anzi non le ha vinte e basta, le ha dominate, ha messo tra lui e gli avversari metri e in tre giri su un pista lunga 250 metri non è facile. Ci vuole talento, un talento enorme. Se non ci fosse la Uci Track Champions League uno come Harrie Lavreysen non lo si vedrebbe pedalare cinque volte in meno di un mese.
E non si vedrebbe cinque volte in meno di un mese nemmeno una campionessa come Katie Archibald. Ed è una bellezza vedere pedalare l’inglese, soprattutto nella corsa ad eliminazione. Al Velodrom l’ha vinta da campionessa, alla maniera dei migliori, per distacco.
Vedere tutto questo da una seggiola di un velodromo è molto più appagante. Si vede tutto in un velodromo e si vede meglio, ci si accorge di quello che i corridori hanno in mente di fare, se qualcosa in loro non gira al meglio. In tivù tutto questo non lo si riesce a scorgere.
Sono riusciti a scorgerlo tutti quelli che erano al Velodrom di Berlino, tutta quella strana e composita presenza umana che stava seduta sui seggiolini, mangiava e beveva, si divertiva guardando qualcosa che forse pochi anni prima non si sarebbe mai sognata di vedere.
Bersi una birra al velodromo, non solo al Velodrom, è qualcosa che Ernest Hemingway descrisse come “meravigliosamente appagante, capace di donarti adrenalina e tranquillità”. Lui ai velodromi ci andava ogni volta che poteva, al Vel d’Hiv, a Parigi, era di casa, lo conoscevano tutti e tutti si facevano una bevuta con lui.
Sarebbe il caso di costruirne uno serio pure in Italia, di investirci davvero, di riportare in Italia i campioni dei velodromi come accadeva prima e dopo la seconda guerra mondiale. “Pensare a quanti autunni e inverni ho passato in Italia a pedalare negli ovali, a quanto mi sono divertito, a quanto la gente era innamorata di noi. E che donne. Pensare a tutto questo e vedere oggi l’Italia senza nemmeno un velodromo decente mi riempie il cuore di tristezza”. Me lo disse Patrick Sercu nel 2016. L’avevo incontrato a qualche centinaia di metri dal Vigorelli. Patrick Sercu è morto nel 2019. Avrebbe il cuore colmo di tristezza anche oggi.