
Una corsa come Le Samyn è giusto che l’abbia vinta uno come Tim Merlier
02/03/2021Mathieu van der Poel ha provato in tutti i modi a primeggiare. Non ce l’ha fatta, ha tirato la volata al compagno che ha superato per primo il traguardo di una semiclassica che è un ricordo e un cognome
Mathieu van der Poel appartiene a quella categoria di ciclisti che le corse se le inventano, le vivono come conquista, non hanno paura della solitudine, anzi la cercano. C’aveva provato alla Kuurne-Bruxelles-Kuurne domenica a oltre ottanta chilometri dal traguardo, ha replicato oggi a Le Samyn, un po’ più vicino dall’arrivo, ma a distanza bastevole per fare il numero.
Mathieu van der Poel appartiene anche a quella categoria di ciclisti che possono vincere in ogni modo: da soli, in una volata a ranghi ridotti o in una di gruppo, che non teme vento, salite, discese. Che sono belli da vedere, unici. Non è la quintessenza della grazia sui pedali certo, ma come lui non ce ne sono, genera comunque un certo fascino.
Tim Merlier con Mathieu van der Poel non c’entra niente, anche se corre per la stessa squadra dell’olandese. Non appartiene alla stessa genia. È un corridore di sostanza, uno di quelli veloci e resistenti, che quando faticano ad andare avanti di gambe si appendono al manubrio e vanno su di gomiti, spalle e bacino. Tim Merlier non è uno che può vincere in ogni modo, ma ha scatto, spunto e intuizione e ogni tanto la ruota davanti agli altri la mette.
Van der Poel oggi non ha vinto perché è giusto che non vincesse. Perché una gara come Le Samyn è giusto che se la porti a casa uno come Tim Merlier e che uno come Mathieu van der Poel tiri la volata (tra le altre cose con il manubrio rotto, chapeau) a uno come Tim Merlier, uno che campione non è, ma che sa trovare il suo spazio nel ciclismo.
Perché anche José Samyn era un corridore di sostanza, uno che quando faticava ad andare avanti di gambe si appendeva al manubrio e andava su di gomiti, spalle e bacino. Anche lui uno che sulle pietre sapeva andare forte e che non aveva paura di niente quando si trovava a quelle latitudini e a quelle longitudini, in quelle Fiandre che sentiva sue per discendenza materna, ma che mai aveva abbracciato per orgoglio paterno e francese. Uno che però campione non era e che dunque si doveva adeguare alle volontà dei capitani di allora, che si chiamavano Jan Janssen prima e Jacques Anquetil poi, gente che dai propri gregari pretendeva solo una cosa, abnegazione totale a una causa, la loro.
José Samyn aspettava il suo momento, sognava un Sessantotto ciclistico, un ribaltamento dei ruoli e dei gradi. Ma il 1968 era già passato e il 1969 quasi, quando ad agosto in un criterium a Zingem, colpì uno spettatore, scivolò, batté la testa e morì.
José Samyn delle Fiandre avrebbe voluto essere Leone divenne un nome preceduto da un articolo: Le Samyn, corsa, la prima che vinse sulle pietre, quella da lui battezzata quando ancora si chiamava Grand Prix de Fayt-le-Franc e che un anno dopo il suo addio prese il suo cognome.