
La Vuelta nei luoghi disperati di José María Jiménez
29/08/2021“Il Puerto de Mijares l’avrò scalato mille volte almeno. È stata la prima montagna che ho raggiunto in bicicletta. All’epoca mi sembrò di aver raggiunto la cima del mondo. Non era così, ma penso di non essere mai stato più felice di quel giorno”.
Dalla cima del Puerto de Mijares a El Barraco ci sono meno di quaranta chilometri di strade che si aggrovigliano nella Castiglia e León. Quaranta chilometri che uniscono in un sol abbraccio una gran parte della vita veloce e ondivaga di José María Jiménez.
Fu in una strada su di una sponda dell’embalse del Burguillo, un bacino idrico lungo il fiume Alberche a pochi chilometiri da El Barraco, dove si conclude la 15esima tappa della Vuelta a España 2021, che El Chava raccontò a Teledeporte il suo rapporto con il Puerto de Mijares. Lì attorniato da quelle alture brulle, vestite di ocra e verde pastello, che i suoi occhi vagarono alla ricerca di quella salita che gli riportava alla memoria il tempo nel quale la bici era scoperta e spensieratezza.
Era l’autunno del 1998, Jiménez aveva da poco concluso una Vuelta nella quale aveva conquistato quattro vittorie di tappa, la maglia di miglior scalatore e il podio a Madrid (terzo dietro ad Abraham Olano e Fernando Escartín). Una Vuelta che aveva dato a tutti la sensazione di trovarsi a cospetto di uno dei più forti scalatori della sua generazione.
Eppure nessuna gioia c’era nei suoi occhi. Quello che le telecamere inquadravano, quei luoghi di desolante fascino, sembravano l’estensione perfetta del suo sguardo.
“Questi luoghi sono animati da una giocosa disperazione. Un qualcosa che non so dirti cosa sia, ma che sembra poter esplodere in ogni attimo in una festa meravigliosa oppure nel più cieco sconforto”. Henry Miller era finito ad Avila (una trentina scarsa di chilometri a nord di El Barraco) nel 1932 per non si sa quale ragione. Viveva a Parigi, lavorava nella redazione parigina del Chicago Tribune. Con l’amico Alfred Perlès si scriveva spesso, soprattutto quando lasciava la capitale per scorrazzare l’Europa. “Sono luoghi questi che difficilmente riescono ad allontanarsi da te se per loro provi un qualche genere di sentimento”.
José María Jiménez dalla sua regione scappava spesso, non riusciva però a non tornarci. Scappava spesso anche dal gruppo allo stesso modo nel quale provava ad allontanarsi da se stesso. Se gli avversari li sapeva lasciare sui pedali, la sua anima nera lo inseguì per sempre.
El Chava era selvaggio per soprannome e per modo di correre. Affrontava la salita come fosse all’interno di una plaza de toros. Era il suo sogno fanciullo quello di diventare torero. Poi fu morso da un cane e i suoi progetti cambiarono, trovarono la dimensione della bicicletta. Nelle sue pedalate rimase questo senso di tragedia sospesa e possibile, quasi non ci fosse alcuna differenza tra una banderillas e una pedivella, quasi se una corsa non fosse altro che una corrida.
José María Jiménez la sua di corrida la concluse il 6 dicembre del 2003 a trentadue anni. La concluse per un infarto mentre cercava di allontanare da sé il giogo della depressione.